LA   SCUOLA


Testimonianze


Testimonianza di una vecchia Prof.

Non scriverò del fischietto, che aveva il potere di zittire all’istante turbe di adolescenti sul finire delle ricreazioni, né dei “Capo-Capo” appena sussurrati che come un flusso organico percorrevano i corridoi e precedevano, avvisando tutti, il suo passaggio: un segnale di pericolo per chi teneva o ne aveva l’intenzione, comportamenti più o meno sanzionabili.

Né spenderò parole per rievocare le tappe della sua straordinaria vita: tanti lo hanno fatto già in modo superlativo.
Il Don del quale scriverò è quello della mia singolare esperienza: il religioso, il Capo, l’uomo, l’amico.
Era il 1987 quando per la prima volta ho varcato il portone del Collegio San Carlo, avevo 26 anni: una neolaureata piena di desideri e di ideali, con una voglia matta di sperimentare ciò che aveva studiato, di educare, di appassionare alla conoscenza.
Ero anche molto impaurita: come mi sarei conquistata l’attenzione e la disciplina della classe, come avrei gestito il capitolo importante delle valutazioni?

Don Dante mi accolse in Presidenza, lo stesso luogo nel quale avevo sostenuto il colloquio qualche tempo prima, e con la straordinaria sintesi di cui era capace mi disse che i nostri ragazzi erano come quelli di Don Bosco, sempre affamati, non più di pane ma di valori.
Noi avevamo il compito preciso davanti a Dio, a noi stessi, e alle famiglie che ce li avevano affidati, di fare di loro buoni cristiani, onesti cittadini e capaci professionisti.
Per quel che riguardava il mio lavoro, il compito era più delicato, poiché avrei dovuto avvicinarli al sapere umanistico e alla storia, quello che “ti serve per la vita, perché ti sa sempre consolare e ti aiuta a capire”.
Mi disse che per tenere la disciplina avrei dovuto essere autorevole, conquistarmi il rispetto con la mia condotta, poi “poche regole annunciate in modo chiaro, e sempre accompagnate dal controllo del loro rispetto, e dalla sanzione immediata nel caso fossero state disattese”.
Sanzione che aveva uno scopo importante nell’architettura dell’educazione, e dunque non doveva essere disgiunta dalla spiegazione al ragazzo del suo errore e delle ragioni del mio provvedimento: “Dietro a te e al tuo buon agire, se sarà necessario, ci sarò sempre io".
Poi con amorevolezza mi accompagnò in Prima Geometri, e mi presentò alla classe.
Per le prime settimane di lavoro, durante le mie lezioni, lo sentivo passare nel corridoio: voleva accertarsi che tutto andasse bene, e solo quando ne fu sicuro, i suoi passi non si udirono più.
Leggendo oggi sui quotidiani dei frequenti atti di bullismo nelle scuole, non posso non ricordare quei preziosi insegnamenti, e pensare a quanto sarebbero utili ancora.
Al Don io devo il mio imprinting: lavorare sempre con onestà, passione, lealtà e conquistare la stima di ragazzi, colleghi e superiori grazie a questi valori.
Amare ciò che faccio dentro e fuori il mondo del lavoro, riconoscendo ad ogni piccolo gesto quotidiano il potere di essere un segno che caratterizza la mia vita e le attribuisce, se guardato con la distanza della riflessione o del ricordo, quello specifico significato che ne fa il mio stile, il mio senso.
Realizzarmi nel dono della vita agli altri, alla costruzione di ponti con gli altri, alla solidarietà, e fare tutto questo senza mortificare disegni ambiziosi, ma potenziandoli.
Il Collegio fu da subito una scuola all’avanguardia, e certamente progetti e strutture, dai laboratori, alla palestra, al campo di calcio furono la realizzazione dei sogni di Don Dante, che per i suoi ragazzi voleva sempre il meglio.
L’ho incontrato l’ultima volta, con Mariuccia Bigliati, al Valentino, nella sua stanzetta, forse tre settimane prima che morisse.
Abbiamo ricordato il passato, commentato il servizio che su di lui era apparso sul Monferrato, poi con appena un velo di tristezza ad accompagnare la solita indomita forza d’animo, ci ha detto che i muri sono muri e basta; il Collegio lui, come noi, lo aveva nel cuore, e da lì nessuno ce lo avrebbe potuto portare via. Vero.
Mi basta chiudere gli occhi per rivivere una Festa del Grazie, sentire l’odore della Chiesa, ritrovare le luci di un pomeriggio autunnale in Studio, o la pace di un momento di raccoglimento nella Cappellina di Don Bosco.
I muri erano solo il filo rosso che collegava Don Bosco, che li aveva acquistati, al nostro Don, che li aveva fatti bellissimi. Ciò che conta davvero però è la vita di cui quei muri sono stati testimoni, e le lezioni che nei cortili, nelle aule, nei corridoi ciascuno di noi ha avuto dal “Capo”.
Io, i miei più cari colleghi di allora, i ragazzi che oggi sono padri e madri di famiglia, tutti abbiamo di quell’esperienza, di quegli anni accanto a Don Dante un ricordo potentissimo: non si spiegherebbero altrimenti la folla oceanica al suo funerale, l’amore degli ex-allievi, la Fondazione, e tutte le testimonianze che della sua eredità morale e spirituale raccogliamo incontrando chi lo ha conosciuto.
Ciò che Don Dante ha dato a me e a quanti hanno condiviso un pezzo del cammino con lui credo abbia, sia pure con toni, intensità e forme diverse, a che fare con la formazione dei nostri spiriti, cui ha impresso, con la sua autorevolezza, un ordine, una struttura: quella che sorge dai valori dei buoni cristiani e degli onesti cittadini. Come voleva Don Bosco.

Grazie, Don Dante.

Prof.ssa Maria Grazia Malagoli.




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